“Andiamo, sali bestia. Ti riaccompagno io all’ostello”.
Lui da un lato, io dall’altro della sua Ypsilon grigia. I nostri sguardi si incontrano per un istante. Sta ridendo con gli occhi, anche se tenta, con quelle spalle impostate e strafottenti, di non farmelo notare. Lo guardo come per dire “Lo sapevo che era tutto uno scherzo, che alla fine volevi riaccompagnarmi tu”, sotto sotto divertita dal suo prendermi in giro con gli amici nella cornetteria più famosa di Arezzo. “No, la riporti te. Io non me la accollo questa”, aveva detto al suo migliore amico qualche istante prima con quell’accento toscano che mi fa uscire fuori dalla grazia di Dio.
Salgo in macchina con un sorriso beota stampato sulla faccia, il cuore a tremila, e gli ormoni che lottano per rimanere al loro posto. Lui butta con incuria i due cornetti alla Nutella appena sfornati nel sedile di dietro, si siede e accende il motore. Mentre si mette la cintura mi guarda. Stavolta sorride. Fa fatica, però, a nascondere un velo di irrequietezza. È bravo a guidare, nonostante abbia solo 23 anni. Oppure sono io che sono una schiappa alla guida, nonostante di anni ne abbia 32, e che lo ammiri senza ritegno nemmeno avesse 40 anni e una vita di esperienze pronte da essere condivise ed insegnate. È una serata bellissima. Le strade di Arezzo che ora riconosco sono illuminate di giallo toscano, deserte alle 3 di un mattino fresco di primavera, stupende quando le luci si riflettono sui vetri e sui suoi occhiali da nerd. La luna piena, enorme e gigantesca sopra le nostre teste, è una rassicurante presenza pronta ad indicarci il cammino.
“Baby I will be loving you ‘til we’re seventeen…”. Francesco accende lo stereo e mette su la sua compilation scegliendo quella canzone. Quando diavolo gli ho detto che adoro Ed Sheeran? Il mio cuore continua a battere forte, nelle mie vene il sangue prende a pulsare più rapidamente. Rompo il silenzio iniziando a cantare, cercando di stemperare la tensione di quel colpo basso. Francesco ride. Sa che adoro Ed Sheeran e sa che la sua è stata una mossa da fuoriclasse. 1-0 per lui. In macchina parliamo del più e del meno, mentre Ed lascia spazio ai Coldplay. Stavolta è lui a cantare una delle mie canzoni preferite. Eh no, Francesco, i Coldplay no! Stai giocando con il mio autocontrollo. 2-0 per lui. Mi arrotolo frettolosamente i capelli attorno al mio indice sinistro, come faccio sempre quando sono nervosa, e guardo fuori la città scorrere via, nell’attesa di arrivare finalmente al mio ostello. C’è un’atmosfera surreale. Sembra quasi tutto perfetto per essere vero. La notte, la luna piena, le luci della città, la colonna sonora giusta, l’odore dei cornetti. Silenzio. Rumore infernale dei nostri cuori che battono forte. Sussulti e turbamenti nell’area che si potrebbero quasi toccare con un dito. Lo scruto con la coda dell’occhio. Ha lo sguardo fisso sulla strada. Di nuovo quell’atteggiamento che mi fa incavolare, della serie “me ne frego di tutti”. Ma stavolta è diverso. Francesco è teso. E quell’ostentazione nasconde, in realtà, una paura fottuta. Lo vedo così per la prima volta.
“Ecco il mio ostello. Grazie per avermi accompagnata”. Francesco accosta la Ypsilon al marciapiede di fronte al monumentale portone di legno massiccio che mi separa dalla mia zona franca. Mi tolgo lentamente la cintura, sospirando piano per non farmi sentire, quanto basta per prendere un po’ d’aria. Quando mi giro per salutarlo Francesco ha lo sguardo fisso su di me e un’espressione seria e imbarazzata.
Lo guardo dritto negli occhi. Mentre continuiamo ostinatamente a fissarci, la sua mano destra raggiunge tremante le chiavi della macchina. Francesco sa che se spegnerà il motore il suo mondo potrebbe definitivamente cambiare.
È una luminosa mattina di maggio e sono appena arrivata a Arezzo. Scendo dal treno e, quando i miei piedi toccano terra, inizio già a sorridere. Adoro la Toscana, mi mette subito una pace dentro che nessun altro posto nel mondo riesce a trasmettermi. I suoi colori, i suoi terreni ordinati, la sua poesia, l’evanescenza dell’aria, la fermezza dei paesaggi come se fossero immortalati in un quadro di un noto artista locale. E poi le persone, quell’inconfondibile accento che mi piace un casino, la pappa al pomodoro!
Sono frizzante mentre mi dirigo a grandi passi verso il mio ostello appena fuori le mura della città. Nessuno può rubarmi la camminata alla Sarah Jessica Parker, i saluti alla Ally Mc Beal che dispenso al panettiere o al barista di turno e il passo deciso di chi è felice di essere solo e libero.
Non sono a Arezzo in vacanza, in ogni caso. Appena poggiato il mio piccolo bagaglio, infatti, mi sistemo alla bene e meglio e parto alla volta dell’agenzia. Starò a Arezzo cinque giorni come stagista – perché in Italia la stella dello stage non tramonta mai ad ogni età- giusto il tempo necessario per apprendere tutti i segreti inconfessabili su come dirigere al meglio un ufficio tutto mio. Sono spaventata ed eccitata, eppure pronta alla grande sfida!
Non so cosa aspettarmi quando arrivo in agenzia. Busso per educazione, anche se la porta sommersa dalle classiche pubblicità è spalancata e lascia entrare l’aria limpida del mattino. “Quanti posti nel mondo ancora da visitare!”, penso mentre do uno sguardo al bancone. Mi colpiscono i souvenir coloratissimi che raccontano luoghi che non so nemmeno localizzare nella cartina geografica! “Quando aprirò il mio ufficio ne voglio il doppio”, tra me e me. La donna che mi viene incontro si chiama Angela. Luminosa, occhi vispi incorniciati da un sottile ombretto celeste, solare come sanno essere solo le donne toscane di 40 anni un po’ in carne, materna nella sua parlata tipica. “Mettiti comoda e poi iniziamo a darti qualche dritta. Nell’altra stanza c’è quel balordo di Francesco”.
Nell’ufficio ci sono solo due stanze e un piccolo bagnetto in fondo. Quindi presumo che la seconda stanza sia quella di tale Francesco. È una stanza senza porta, quindi non posso nemmeno bussare. Mi affaccio. “Ciao”. Mi aspetto di trovare un ragazzo un po’ attempato, con qualche chilo in più, con gli occhiali spessi, e mi stupisco di questa mia scientifica fantasia. Invece eccolo lì.
Francesco. 23 anni, una pelle pulita e vellutata, altissimo, le spalle larghe di chi fa tanto sport, abbigliamento casual, capelli mori tirati indietro con il gel – quanto basta per non irritare – e occhiali da nerd che gli danno indubbiamente un tono.
Francesco, in piedi, mi stringe la mano con fare deciso dalla sua postazione. Sorride. Parla poco. Oook, penso tra me e me, questo qui pensa di essere figo. Sì è un ragazzo indubbiamente carino ma se la tira un po’ troppo. Francesco mi guarda sornione: sa che sarò la sua schiavetta personale per i prossimi cinque giorni.
“Cosa hai da scrivere su quel quaderno? Sei per caso una spia?”. Una voce, morbida e pacata, rompe il silenzio e la mia concentrazione. Alzo gli occhi e me li stropiccio, come se mi fossi appena svegliata. In piedi dalla sua postazione, dopo avermi ignorato per tutta la mattina, Francesco mi sorride. “E’ che sono smemorata, se non mi scrivo tutto quello che mi dice Angela e che mi serve per l’ufficio non ricordo nulla”. “Certo che sei strana”. Sorride, di questo mio zelo, e improvvisamente mi sento una bambina piccola. Neanche il tempo di rifilargli una degna risposta ad effetto che mi fa “Dai vieni a fumarti una sigaretta”. Senza nemmeno rispondere mi alzo e lo accompagno fuori, lanciandogli un’occhiata infastidita.
Non ho mai fumato, nel senso di prendere il vizio. Certo ho provato, così come ho fumato le canne e tutto quanto, però non ho mai lasciato che quello che tutto sommato è un indubbio piacere per il palato prendesse il sopravvento su di me. A trenta anni e passa non si può iniziare, andiamo. E ora meno che mai, squattrinata come sono.
Francesco fuma la sua sigaretta come se fosse l’ultima. Un tiro, poi ancora un altro, con vigore. “Insomma te che fai di preciso?”. Inizio a raccontargli un po’ di me. Di quello che mi aspetta una volta tornata a Roma, del motivo che mi ha portato ad andare a Arezzo in quei giorni primaverili. E devo dire che mentre racconto mi sento un po’ strana. Eccomi lì, a 32 anni, che parlo del reinventarmi e bla bla bla con un ragazzo di 23 che ha già 4 anni di esperienza di lavoro alle spalle e che potrebbe dirigere un ufficio tutto suo. Sono qui, che lo osservo muoversi con la grazia e la decisione di un uomo fatto e formato, come una alunna osserva con ammirazione il proprio maestro. “Quindi sei qui per imparare da me”. “Ma nun lo stare a sentire il balordo. E Fra, ti faccio notare che il telefono sta squillando”. Angela ci riporta immediatamente alla realtà. Francesco mi sorride e mi passa la sigaretta. “Non farla spegnere”. Ora mi sento ufficialmente imbranata. Faccio un tiro alla sigaretta. Poi il secondo. Il balordo non torna. Getto la sigaretta in un tombino e rientro per finire la mia giornata lavorativa.
Il primo giorno tutto sommato vola via in un attimo. E così il secondo e il terzo. L’ufficio lavora molto e io sono tutta attiva. Osservo, parlo con i clienti, prendo appunti, interrogo Angela. Anche Francesco inizia a mettere un po’ da parte quell’aria da spavaldo in calzamaglia…peccato però per assumere un atteggiamento ancora più imbarazzante. Ora il suo obiettivo è studiarmi. “Ma quante paia di scarpe hai portato?”. “Ma sei sicura di avere 32 anni? Mi sembri una ragazzina”. “Ti sta bene questo colore addosso”. “Di sera che fai? Stai uscendo qui a Arezzo?”. Anche se un po’ mi infastidisce questo suo ingresso a gamba tesa nella mia vita, a man a mano mi sciolgo e tutto sommato parlargli un po’ di me non mi dispiace più così tanto. E anche lui non si sottrae. Immediatamente scopro che dietro quell’aria da ragazzino di provincia un po’ fighetto si nasconde in realtà una persona piena di passioni. E che si da un gran da fare. Francesco fa l’allenatore di basket. Lo prendo in giro facilmente sulla sua bravura tutta da dimostrare ma dentro di me sono certa che in realtà è bravo davvero. È appena passato alla fase nazionale, che tra le altre cose prevede un tour dell’Italia per le partite. “Così ti vengo a trovare a Roma”.
Il terzo giorno Francesco ha deciso che deve proprio farmi avvelenare. Siamo seduti di fronte a Angela, in un momento di pace in ufficio, concentrati a leggere la bozza di business plan. “Angie, ma non credi che io e la Melania saremmo una bella coppia?”. Mi irrigidisco ed alzo gli occhi, pietrificata. Lo sguardo senza speranza di Angela da dietro i suoi occhiali a mezzo naso la dice lunga. Francesco ora ride di gusto. “Si certo, te tu vallo a dire alla Gabriella”. “Dai, non sembra che abbiamo la stessa età?”. Francesco e Angela continuano a battibeccarsi, ma io sono rimasta qualche pagina indietro. Sbaglio o abbiamo una guest star? E chi sarebbe ora questa Gabriella? Angela mi illumina. Gabriella, 22 anni, fidanzata. Con Francesco.
Bene, Francesco è fidanzato. Non che la cosa mi interessi o mi riguardi, però son cose che uno deve sapere, no? E mica si può scoprire così su due piedi che il genietto mezzo nerd con il quale hai passato le tue ultime 72 ore è fidanzato da 4 anni. Con una bellissima e altissima ragazza di nome Gabriella. Che ha 22 anni. Praticamente la sua stessa età. Che vive nella sua stessa città. Che ha i capelli lunghi, soffici, neri corvino e la bocca rossa a forma di cuore.
Ok lo ammetto. Sono stesa sul letto del mio incantevole ostello e sto sfogliando la pagina Facebook di Gabriella. Ad un tratto mi blocco. Una foto dei fidanzatini di Arezzo che si scambiano un bacio appassionato. Spengo il telefono e la luce tutto di colpo. “Ma non eri stanca? E allora dormi no?”. Da sotto le coperte, con gli occhi sbarrati, mi scopro improvvisamente scombussolata ed irrequieta.
È il mio penultimo giorno a Arezzo e sto davvero cercando di concentrarmi. Sono seduta vicino a Angela, che sta scrivendo non so cosa al pc, e sono contenta che oggi il via vai dei clienti si sia affievolito, così per una volta posso farmi i cazzi miei. Domani sera devo tornare a Roma ma ci sono ancora moltissime cose che devo ascoltare, scrivere, imparare, rielaborare, fare. E temo che non farò mai in tempo. C’è uno strano silenzio in ufficio, come se tutti fossero qui ma altrove, concentrati sui propri drammi personali. Improvvisamente mi assale una paura matta. “Ma come mi è venuto in mente di aprire un ufficio mio? Non era meglio fare la cameriera a Londra??”. Mentre mi immagino sommersa di lavoro e i miei clienti in preda ad una fuga vertiginosa per colpa della mia incapacità, Francesco mi chiama. “Mel, vieni un attimo”. Lascio il mio posto vicino a Angela e mi avvicino a lui, che sta lavorando nell’altra stanza. È seduto di fronte al pc, con il software di prenotazione aperto, e mi sta aspettando. Da dietro gli occhiali colgo il classico sguardo di chi sta per mettermi alla prova. “Cosa c’è? Oggi ho molto da fare Fra”. “So io cosa hai da fare oggi”. Aggrotto la fronte. Non capisco. “Vieni, siediti al posto mio. Oggi farai la tua prima prenotazione”. Mi prende la mano e mi fa sedere al suo posto. Sono di fronte al pc. Panico. Cosa? Come? Ma io non sono capace? E se sbaglio? Mica posso rimetterci dei soldi. Non se ne parla. “Fra, non lo so se..”. Prima che io possa continuare con la mia cantilena di dubbi operativi Francesco prende un’altra sedia e mi si siede di fianco. “Bestia, non preoccuparti. Ci sono qui io”.
Mi volto a guardarlo, con gli occhi pieni di ammirazione e gratitudine e un qualcosa dentro che non riesco bene a decifrare. Ad un tratto quella semplice frase mi sembra la più bella che abbia mai sentito in vita mia.
Con Francesco al mio fianco riesco brillantemente a superare la prova! “Ce l’ho fatta!”. Batto le mani, felice, e non riesco a contenere la mia gioia. Ci alziamo entrambi e l’unica cosa che posso fare è abbracciarlo forte. È la prima volta che i nostri corpi provano il contatto l’uno dell’altra. Francesco, testa con la mia testa, sorride e il suo respiro mi accarezza la spalla. Piccole, infime, indelicate saette invadono il mio corpo, centimetro dopo centimetro, lanciandomi brividi dalla punta dei capelli fino alle dita dei piedi. Una scarica di adrenalina, come il passaggio della corrente elettrica, mixata con il buon profumo di lui e con la sensazione di benessere tra le mani quando tocco la sua pelle giovane e vellutata. Mi stacco da lui, ma tanta è l’agitazione che non riesco ad alzare lo sguardo. “Dai, ti offro un caffè. Oggi te lo sei meritato”. Francesco si avvia all’uscita e io lo seguo, arruffata dentro. Chissà se anche lui ha provato quello che, forse, non vorrei aver provato io.
“Il solito, Marti. Per due”. Francesco saluta Marta, una ragazza simpatica che gestisce da più di 20 anni il suo bar diventato ormai un’istituzione al centro di Arezzo. Marta, che di anni ne ha 40 portati magnificamente, mi fa l’occhiolino mentre versa in due bicchieroni una bibita di un colore strano. “Non mi sembra caffè Fra”. “Marta e Francesco sorridono. “Bevila con calma e assaporala, perché poi non ne potrai fare più a meno”, Marta mi porge uno dei due bicchieri. Francesco prende il suo e tira un sorso infinito, di gusto. “Si chiama Spuma. A Roma non esiste”. “Spuma?”, guardo con sospetto, prima lui e poi la bibita, dato che il colore giallo scuro non mi ispira per niente. “Sì, è una bibita prodotta solo per la Toscana. Assaggiala, non fare la difficile come al solito!”. “Io non faccio la difficile!”. “Non sai che caca cazzi infinita è lei Marta!”, Francesco cerca conforto in Marta, che però lo stronca subito, divertita. “Non può essere peggio di te, Fra!”. Marta, mi fa di nuovo l’occhiolino e si allontana per servire gli altri clienti. “Secondo me le piaci….”. Francesco si mette a ridere. “La Marta è dell’altra sponda…”. Stavolta scappa da ridere anche a me. “Ma piantala Fra! E assaggiamo questa Spuma”. OH MIO DIO. È davvero buonissima! “Lo vedi, come fai a non amare la Toscana???”, ammetto al settimo cielo tra l’estasi delle mie papille gustative. Francesco mi osserva senza dire nulla. “Cosa c’è?”. “Ma come fai ad essere sempre così entusiasta della vita te?”. Continuo a sorseggiare la mia Spuma. “Parli come un vecchio Fra!”. “Senti ma stasera che fai? Esci?”. La domanda di Francesco mi coglie impreparata. Conosco bene la risposta ma non mi aspettavo assolutamente la domanda. “Pensavo di fermarmi a mangiare qualcosa in giro dopo lavoro e fare un po’ di foto alla città. E’ così bella nelle luci della notte. “E te che ne sai! Sei sempre barricata in ostello!”. “Beh un buon motivo per vederla stasera allora. C’è la luna piena”. Francesco rimane a guardarmi, senza dire nulla, mentre io aspetto che faccia la sua solita battuta insolente, continuando a bere la mia meravigliosa spuma. “Stasera resto a cena fuori con Giorgio, un mio amico. Se ti va ti puoi unire a noi”. Francesco lascia 5 euro vicino alla cassa. “Il resto mancia Marti”. Martina ci saluta con un cenno della mano. “Alla prossima ragazzi. E fate i bravi mi raccomando”.
Francesco si avvia verso l’uscita, staccandomi come sempre con il suo passo lungo. Lo seguo con ritmo rallentato. Mi gira un po’ la testa. Sarà l’effetto della spuma?
Il resto del pomeriggio passa veloce, con Angela e Francesco intenti a risolvere un piccolo problema con un cliente e io che li assisto come posso tra una fotocopia e una mail. Le persone concentrate sono bellissime. I muscoli sono tesi, lo sguardo è focalizzato mentre gli occhi corrono da una parola ad un’altra, la bocca si muove in maniera regolare per poi contrarsi quando dall’altro capo del telefono qualcuno ci fa incavolare, i movimenti delle mani diventano più svelti. Quando è concentrato, Francesco ha un piccolo tic. Arriccia il naso e si tira su gli occhiali con un dito. È adorabile quando lo fa, soprattutto perché non se ne rende conto. Mi sorprendo a rifletterlo. È un bel ragazzo, ma non posso dire che sia uno di quelli che ti colpiscono al primo incontro. Veste casual, quindi risulta alla mano, ma le sue spalle larghe e la schiena dritta lo fanno sembrare impostato. Ora che lo osservo bene mi rendo conto che è piccolo davvero. Quando ride divertito, poi, dimostra tutta la sua giovane età.
Niente, nessuna cosa, ha senso. Non capisco perché un pischelletto così debba farmi perdere il lume della ragione. Ho 32 anni, potrei avere chiunque, eppure, seduta in questa scrivania di un piccolo ufficio di provincia, mi scopro a desiderare proprio lui.
“Allora che fai vieni stasera?”, Francesco prende la sua borsa e ci caccia dentro il portafogli, il cellulare e l’inseparabile pacchetto di sigarette. È orario di chiusura e Angela è appena andata via. Sono combattuta, davvero combattuta. È piccolo, fidanzato, toscano. E domani vado via. Perché devo andarmi a rovinare, perché? Bene, ok, ragiono ancora e il mio cervello è convinto sul da farsi. “Certo”. No cavolo! È la mia bocca a decidere per me. Ma cosa diavolo stai dicendo??? Non devi andare!!! Francesco mi sorride. “Ok, allora ti raggiungo tra un’oretta con Giorgio il mio amico. Andiamo in un posto figo a mangiare”. “Ok, io intanto mi faccio un giro prima che chiudano i negozi. Ho qualche regalino da comprare”. Francesco chiude a chiave il negozio, con la decisione dei suoi movimenti abituali. “Compra un regalino anche per me”. “Si certo, sei la prima persona a cui penso”, lo canzono. “Lo so”. Francesco mi fa l’occhiolino e si allontana, giocherellando con le chiavi. “Ci vediamo tra poco, bestia”.
Ok, sono ufficialmente nervosa.
Per calmare i miei nervi a fior di pelle decido di concentrarmi sulla città. Mi armo di cartina e della potente fotocamera del mio I-Phone e inizio a girovagare per le sue viuzze. Non si può dire che sia la città più bella della Toscana, lo riconosco, anche perché posso vantare una certa esperienza per quanto riguarda i paesaggi della mia regione preferita. Eppure, quando le attività iniziano a chiudere e i pub e i locali a tirar su le saracinesche, mi scopro ad amare quelle luci, quelle strade d’asfalto illuminate dalle pozzanghere di pioggia dei giorni precedenti, quella pace silenziosa e avvolgente. Arezzo, hai anche tu il tuo posto in questa Toscana che io adoro!
Si avvicina l’ora di cena che quasi non me ne accorgo, concentrata come sono a districarmi tra il telefono (volato a terra un paio di volte e puntualmente salvato in corner dalla mia nuova custodia londinese che mi invita a mantenere sempre la calma, auspicio ottimista per il volo di un attrezzo di 700 euro che smetterò di pagare quando i miei capelli saranno bianchi), la cartina e le buste degli immancabili souvenir acquistati per il rotto della cuffia. È il tocco di una mano dietro la schiena a svegliarmi dalla mia turistica condizione. E a farmi vibrare. “Sei fantastica quando sei assorta”. Mi giro con l’eco di una canzone nella testa e lo vedo. Dietro di me, Francesco e quello che con tutta probabilità è il suo amico Giorgio. “Hey, si stavo..”. Non finisco neppure la frase che il suo amico mi blocca. “Finalmente conosco la famosa Melania. Piacere Giorgio”. “Vedo che la mia reputazione mi precede”, il mio volto si distende e gli sorrido, ricambiando la sua stretta di mano decisa. Francesco osserva la scena e sorride anche lui. “Sì, gli ho raccontato tutti i tuoi momenti imbarazzanti in ufficio”. Guardo Francesco furiosa e divertita. “Giorgio. Visto che sei suo amico dovrò iniziare a dubitare della tua intelligenza ancor prima di conoscerti!”. Giorgio scoppia in una fragorosa risata e mi fa l’occhiolino. “Me l’ha detto Fra che sei simpatica”. Gli sorrido. Il ghiaccio è stato finalmente rotto, eppure quando Francesco mi guarda sento un’improvvisa ondata di calore.
Mel, Keep Calm.
I ragazzi mi fanno strada verso il pub dove andremo a mangiare. È un ristopub messicano, mi illumina Francesco, che continua a muoversi per le vie del centro con il passo talmente veloce che faccio quasi fatica a stargli dietro, immersa come sono nelle mie buste, cartelle, cartine ecc. Ma una volta non c’erano i cavalieri pronti ad immolarsi per aiutarti con i bagagli? O devo pensare che ormai questa nobile usanza, che convinceva abbastanza istantaneamente noi donne che tutto sommato quella della parità dei sessi non fosse poi una grande idea, sia ormai esclusiva degli uomini giapponesi e delle loro annoiate e “ben vestite” promesse spose? Arriviamo al pub e il nostro oste, un tipo moro un po’ bassino di nome Fernando, ci accoglie calorosamente. Si vede che Francesco e Giorgio sono i soliti benvenuti. “Hola chicos! Accomodatevi, scegliete pure il posto”. È abbastanza presto, per questo il locale è semivuoto e Fernando ci dà la possibilità di indicargli il tavolo. “Guapa, scegli tu, che le donne in fatto di gusti sono imbattibili”. “Allora dacci il tavolo fuori, quello più distante dal maxischermo”. Fernando mi sorride e avvicina la sua bocca al mio orecchio. “Intuito femminile, stasera c’è la partita”. Francesco e Giorgio, contrariati, ci seguono al nostro tavolino. “Una serata magnifica”, Francesco si toglie la giacca e si siede di fronte a me, dando comunque un’occhiata nemmeno troppo velata al maxischermo. “Parla per te, Fra, io e Giorgio dobbiamo passarla con te”. Francesco si blocca, distoglie lo sguardo dallo schermo e prende a fissarmi, mentre le parole scorrono da un neurone all’altro per poi raggiungere l’area del significato e lanciarmi un’occhiataccia. Giorgio, divertito, gli dà una pacca di conforto sulla spalla e si siede vicino al suo amico, che per vendicarsi inizia a togliermi dalle mani il menù. “Fra, non siamo in gita di 5 elementare! Fammi scegliere cosa ordinare!”. In quel momento Fernando arriva con il suo blocchetto e io, tanto per cambiare, non sono minimamente pronta. “Torno tra un po’?”, mi chiede avvertendo il mio imbarazzo. “No, lei prende nachos piccanti e una quesadilla senza pomodoro”. Ignaro di ciò che sta accadendo, Fernando si appresta a scrivere tutto sul suo taccuino, mentre io alzo lo sguardo intensamente su Francesco. Anche lui mi fissa ma, a differenza mia che ho un’espressione serissima, se la ride di gusto. Non so se essere più incavolata per aver scelto per me, dando per scontato che la mia opinione di donna non conti nulla, oppure se essere completamente terrorizzata dal fatto che, questo insolente ragazzino di Arezzo, sappia esattamente cosa mi piace di più al mondo. E per di più senza pomodoro. “Da bere birra per tutti?”, Giorgio per fortuna ci riporta alla realtà. “Per me vino bianco”, irrompo senza mezzi termini sistemando il tovagliolo di stoffa sulle ginocchia. “Ma come puoi bere vino con la quesadilla?”. Stavolta non lascio neanche un istante a Francesco per ridere di me. “Tanto devo berlo io, no?”. “Però! Non è solo il cibo ad essere piccante vedo!”; Fernando, ammaliato dalla scena, se la ride, prima di andare via portando con sé la nostra ordinazione. Nonostante qualche attrito che non si capisce bene da dove spunti, la serata procede e, complice qualche bicchiere in più, dopo qualche ora siamo tutti più rilassati.
Io e Francesco, d’altro canto, non la smettiamo un attimo di punzecchiarci. L’aria, ha ragione Fernando, è davvero piccante.
Decidiamo di buttarci per le vie del centro, dove Giorgio ci guida in un locale che a detta sua è il più economico e migliore della città. Io non posso ribattere, quindi non mi resta che fidarmi. Mentre camminiamo incontriamo altri due ragazzi, che Francesco saluta vigorosamente con un abbraccio fraterno e con colpetti sulla nuca da compagni di merende. Prima che mi si presentino ho già capito che l’incontro non è affatto casuale. “Loro sono due colleghi. Si uniscono a noi per la serata”, mi spiega Francesco, notando la mia espressione interrogativa. Mi sembrano simpatici, e pian piano le battute canzonatorie si espandono a macchia d’olio coinvolgendo tutti. Il bersaglio? Francesco, ovviamente. Mi sto divertendo un mondo, stiamo tutti ridendo di lui, quando all’improvviso Francesco si alza e si allontana urtato, interrompendo le nostre risate. “Vado a prendermi un altro mohito”. Quando ritorna, però, è lo stesso spavaldo sbruffone di sempre. “Tieni bestia, ne ho preso uno anche per te. Offro io”. Lo guardo con gratitudine, anche se decido che non la passerà certo liscia. “Non pensare di conquistarmi con un mohito”. “E perché dovrei conquistarti, scusa?”. “Infatti non devi, altrimenti non posso provarci con uno dei tuoi amici”. Le nostre scintille vengono interrotte dalla voce possente di uno di loro. “Da quanto tempo vi conoscete voi due?”. “Da tre giorni credo”, Francesco è divertito, ma io ho un colpo ben assestato. “Da troppo, evidentemente”. “Sembra vi conosciate da una vita”. Giorgio, stavolta, fa calare improvvisamente il silenzio. Ci stanno guardando tutti. Eppure, io non me ne curo. Seduti al tavolino di quel locale spartano di Arezzo, io e Francesco abbiamo occhi solo l’uno per l’altra.
Stiamo camminando per le vie di Arezzo e mi accorgo che un po’ barcollo. Eppure ho bevuto solo un cocktail e mezzo. Gli altri sono qualche passo avanti. Francesco, invece, cammina al mio fianco. Il suo volto è beffardo ma non capisco il perché. “Cosa diavolo hai da sorridere?” “Niente”. “Come niente?”. Francesco non mi risponde e mi cinge le spalle con il suo braccio. Un misto di stupore e sollievo – l’aria di Arezzo di notte sa essere davvero pungente – invade tutto il mio corpo.
Sento il suo calore avvolgermi. E mi fa sentire bene.
“Davvero non riesco a capire come tu possa avere 32 anni. Sembri una ragazzina. Una magnifica ragazzina”. La voce di Francesco assume una dolcezza inaspettata, mai sentita prima. Quando alzo lo sguardo in direzione dei suoi occhi sto tremando. E non di freddo. “Cornetto per tutti?”. Giorgio interrompe i fili che stavano legando, pericolosamente, me e Francesco, che toglie immediatamente il braccio dalla mia spalla. “Certo. Vi raggiungo con la mia macchina, così poi me ne vado a casa”. Arriviamo alla Ypsilon in poco tempo; ormai ho imparato a capire che tutto, a Arezzo, è vicino. Siamo io e Francesco, in quel viaggio verso la cornetteria, ad essere distanti. Lo osservo mentre guida. Non faccio in tempo a domandarmi cosa starà pensando dentro quella grande testa che siamo già arrivati. “Andiamo bestia?”. Non so perché il suono di quella parola mi tranquillizza. E non mi ero nemmeno accorta di essere nervosa! La cornetteria è invitante e piena zeppa di gente. Leccornie di ogni tipo invadono due lunghe file di banconi di vetro, in mezzo alle quali persone più o meno sobrie scelgono con fatica cosa sfamerà la loro fame chimica. Nonostante sia la persona più golosa sulla faccia della terra decido di non prendere nulla, del resto non mi sento benissimo. “Sarà stato il tuo cocktail…”. “Perché?”, mi rivolgo a Francesco con tono interrogativo e mi accorgo che sta ridendo. “Perché era rinforzato. Dovevo pur vendicarmi di tutte quelle prese in giro”. Ad un tratto torno sobria e mi sale il veleno. “Fra, ti ammazzo lo sai?”. Sto per picchiarlo quando barcollo di nuovo e finisco tra le sue braccia. Lui mi rimette in piedi immediatamente, incapace di sostenere il contatto con il mio corpo arrendevole. “E che sarà mai, su. Tanto tra poco te ne vai a nanna”. Sono ancora incavolata quando usciamo tutti dalla cornetteria, ognuno con il suo trofeo tra le mani. Francesco ha una busta con due cornetti alla Nutella, che però non scarta. È Giorgio a domandargli come mai. “Lo mangio quando arrivo a casa. E uno è per domattina”. Mi accorgo che quella spiegazione non convince nessuno. Giorgio gli dà una pacca sulla spalla. “Seratina movimentata con la Gabriella eh?”.
Francesco abbassa lo sguardo per nascondere il suo evidente imbarazzo, anche se gli altri non gli prestano attenzione. Del resto i cornetti sono troppo buoni per concentrarsi su qualcos’altro. Dal canto mio, sento divampare la rabbia dentro di me. Come ho potuto pensare che il secondo cornetto fosse per me?
Arriviamo alle macchine, stanchi e sfiniti dopo la serata. Francesco interrompe i miei pensieri e mi accorgo che lo sto guardando con il broncio. “Perché mi guardi così?”. Mi sveglio come da un incubo e per fortuna ho il tempo dalla mia parte “Niente, ho freddo e sono un po’ stanca. Voglio tornare in ostello”. Francesco mi abbraccia. “Allora non guardare me, perché ti riporta Giorgio”. Mi stacco da lui, nera. “Ah si?”. Abbasso la voce: “Ma io non lo conosco mica, Fra. Non puoi. Senza offesa”. Giorgio mi guarda per niente colpito. “Figurati, per me non c’è problema”. “No, la riporti te. Io non me la accollo questa”, Francesco continua per la sua tesi. Lo fulmino con lo sguardo. “Ma stai dicendo sul serio, Fra?”. “Certo, io abito da tutt’altra parte, mentre lui è di strada”. Improvvisamente sono furiosa. Infreddolita, nervosa, e con la sensazione di essere stata presa in giro. Come avere la convinzione di guardare un film in techincolor, per poi scoprire che quei colori brillanti erano solo frutto di lenti speciali, perché in realtà il film era in bianco e nero. E di pessima qualità. Saluto freddamente gli altri e mi avvicino a Francesco. Il giorno dopo non sarebbe venuto in ufficio e nel pomeriggio io sarei ripartita per Roma. Tecnicamente era l’ultima volta che ci vedevamo.
E quindi quello sarebbe stato il nostro addio. Da consumarsi in un triste parcheggio della periferia di Arezzo di fronte ad un pubblico non gradito.
Bene, penso, davvero una fine serata UNICA! “Beh allora ciao Fra”. Gli do la mano, sforzandomi di sembrare naturale e dando la colpa di tutto il mio malessere al sonno, al freddo, a tutto tranne che alla verità. E la verità è che non sopporto di salutarlo in quel modo, in quel parcheggio, con la convinzione di non vederlo mai più e con la consapevolezza che quel dannato cornetto non era per me. “Ciao”. Francesco ricambia la mia stretta di mano. E poi le sento. Risatine, versi, colpi di tosse. Tutti i suoi amici stanno ridendo. Non capisco, e torno con lo sguardo su Francesco. Ora anche lui sta ridendo, e mi mostra tutti i suoi denti bianchissimi nel sorriso più bello che abbia mai visto. Capisco che ci sono cascata come il pero. “Andiamo, sali bestia. Ti riaccompagno io all’ostello”. Stavolta sono io a ricambiare il suo sorriso con tutta la forza che ho.
“Ecco il mio ostello. Grazie per avermi accompagnata”. Francesco accosta la Ypsilon al marciapiede di fronte al monumentale portone di legno massiccio che mi separa dalla mia zona franca. Mi tolgo lentamente la cintura, sospirando piano per non farmi sentire, quanto basta per prendere un po’ d’aria. Quando mi giro per salutarlo Francesco ha lo sguardo fisso su di me e un’espressione seria e imbarazzata. Lo guardo dritto negli occhi. Mentre continuiamo ostinatamente a fissarci, la sua mano destra raggiunge tremante le chiavi della macchina.
Francesco sa che se spegnerà il motore il suo mondo potrebbe definitivamente cambiare.
Francesco, la mano destra ancora poggiata sulle chiavi della macchina, distoglie improvvisamente lo sguardo. E allontana la mano dalle chiavi, lasciando la macchina accesa. Un sospiro misto tra scherno e aria che manca nei polmoni mi invade. E mi riporta dritta sparata verso la cruda realtà. Francesco non vuole fermarsi. Francesco sta aspettando che io scenda dall’auto. Lo guardo un ultimo istante, spaesata, come un pulcino infreddolito. Mi ricompongo. Sorrido, in maniera impercettibile, mentre dentro me ogni piccolo tassello del puzzle crolla. Mentre dentro vado in frantumi. “Ok, buonanotte”.
Gli do un bacio fugace sulla guancia ed esco dalla Ypsilon prima ancora che lui possa rispondermi. E mi avvio a grandi passi verso il portone di legno di fronte a me.
Sto ancora camminando quando sento la macchina ripartire sgommando, quasi come se non vedesse l’ora di lasciarmi alle sue spalle. Di liberarsi di noi. Mi sento stordita. La chiave nella serratura fa click e il portone si apre. Entro, sbattendolo alle mie spalle. Non mangerò mai il fottutissimo cornetto alla Nutella.
Rientro in camera in preda ad una foga mai provata prima. Getto tutto a terra e mi butto sul letto a testa bassa, quasi a soffocare nel cuscino, determinata al non versare nemmeno una lacrima.
La cosa che mi fa più rabbia è che io mi senta una perfetta idiota. Come ho potuto pensare che Francesco provasse qualcosa per me? Che in fondo in fondo quella seratina fosse studiata? Che avesse rinforzato il dannato mohito per sciogliermi un po’? Come ho potuto pensare che avesse intenzione di offrirmi il cornetto, di fermarsi a parlare sotto l’ostello e chissàcosaltro???
Sto ancora lottando con la mia voglia di piangere ed urlare quando sento un Bip. È la vibrazione di Whatsapp. “So che mi pentirò ogni giorno per non aver spento la macchina”. Faccio un salto sul letto, in un vortice di emozioni contrastanti. Non credo a quello che ho letto! Ma allora non mi sono sbagliata! Non ho sognato! Ora una sensazione di terrore mi assale. Cosa faccio??? Gli rispondo? E cosa? Senza ancora formulare un pensiero razionale dentro di me le mie mani stanno già scrivendo. “Se vuoi i cornetti sono ancora caldi”.
“Vorrei con tutto me stesso tornare indietro e fermarmi di nuovo sotto il tuo ostello. Ma non posso”.
Fisso il mio I-Phone. Non so. Non so davvero cosa fare. Cosa pensare, cosa scrivere, come muovermi. So solo di non voler avere la certezza che la persona che vorrei più di ogni altra non ha il coraggio di tornare. Mi sento rifiutata, improvvisamente svuotata, rabbiosa. Getto il telefono a terra e mi accoccolo nel letto, respirando a pieni polmoni per mantenere la calma e tornare in me. Non avrei mai pensato di trovarmi in una situazione simile in vita mia. Sospesa tra il raziocinio e i capricci di una bambina. A 32 anni. Quando sto per compiere un passo importante nella mia vita. Quando l’ultima cosa di cui ho bisogno è una stupida cotta adolescenziale. Quando, però, chiudendo gli occhi riesco a vedere solo lui.
Mi sveglio di soprassalto dal suono della sveglia. Dove sono? Chi sono? Che ore sono? Improvvisamente mi rendo conto che sono a Arezzo, nel mio ostello, e che oggi è il mio ultimo giorno di stage. Faccio per alzarmi e mi ricaccio indietro. Ho un mal di testa lancinante, tipico di una sbornia che a 32 anni ti costringe a camminare come un rottame almeno per 3 giorni. Mi alzo e mi guardo allo specchio. “Dannata post-sbornia da trentenne. Sei un disastro!!!” Decido di saltare la colazione, tanto con la nausea non è un così grande sacrificio, e mi sistemo al mio meglio possibile. “Ok, poteva andar peggio”. Peccato che non si possano coprire le ferite interne con un po’ di fondotinta.
Mi sento vuota, eppure pesante. Come se un masso enorme mi fosse caduto sulla testa impedendomi di alzarmi. Sto andando in ufficio camminando a testa bassa, seguendo il percorso che i miei passi hanno fatto per 5 giorni e che ora conosco a memoria.
A differenza di quando sono arrivata, però, oggi mi sento la Sarah Jessica Parker alla quale hanno appena rubato il taxi da sotto mano. Un taxi che a ben guardare non le era davvero appartenuto. Se riesco a concentrarmi e a non pensare alla disastrosa serata appena trascorsa, questa piacevole sensazione di passo dopo passo, questa familiarità, mi fanno sentire per un attimo a casa.
Arrivo in ufficio in anticipo rispetto al solito, e il sorriso di Angela mi illumina. “Piccola, mi spiace che te tu oggi vai via. Se potessi ti sostituirei con quel balordo di Francesco guarda!”. Sentire il suo nome mi provoca un dolore fisico che mi fa male. Faccio un respiro profondo. “Mi mancherai Angela!”. “Stamani mattina chiedimi pure tutto quello che vuoi perché mi dedicherò a te completamente”. Già, perché dopo pranzo il treno delle 15 mi riporterà a Roma. La mia Roma. Non ci ho pensato minimamente in questi 5 giorni di trasferta, eppure ora che mi viene in mente mi manca. Chiudo gli occhi, sperando in cuor mio di dimenticare tutto (tranne i miei appunti) una volta toccato il suolo laziale. “È stato tutto un brutto sogno”. Mi costringerò a pensare.
Ore 12:30, il mio telefono vibra.
“Bestia, a che ora vai a pranzo?”. Leggere il suo nome mi fa trasalire. So che non dovrei rispondere ma è più forte di me. “Tra un’oretta”. “Anticipa di mezzora così pranziamo insieme con calma. Meritiamo di salutarci come si deve”. Il mio cuore sta battendo all’impazzata, seguendo la scia delle vibrazioni dell’I-Phone. Improvvisamente vengo sorpresa da una malsana agitazione. All’una raccolgo tutte le mie cose e saluto Angela con un abbraccio che sembra essere infinito. “Mi sono sentita a casa. Grazie Angie”. “Figurati piccola. La porta è sempre aperta qui lo sai. Mi spiace che non hai salutato Francesco”. “Fa nulla, pensaci te Angie”. Mi avvio verso la porta e la saluto ancora con un cenno della mano prima di voltarmi definitivamente per prendere la volta del sushi bar dove pranzerò prima di partire. Ho sempre odiato gli addii.
Arrivo al sushi bar vicino alla stazione tutta trafelata, con i bagagli trascinati come una barbona, la giacca stropicciata e il cuore in gola. Salivazione zero. E poi lo vedo.
Francesco, con gli occhiali da sole, la schiena poggiata sul muro di fianco all’ingresso. Ero determinata ad essere dura con lui. Dopotutto mi aveva piantata sgommando sotto il portone dell’ostello facendomi credere per tutta la sera di voler stare con me. Però sapevo anche che non avrei resistito a quel sorriso. Che infatti ha appena sciolto tutti i miei buoni propositi. A pranzo ordiniamo l’impossibile, come ogni all you can eat che si rispetti. E come ogni italiano che si rispetti. Peccato che non tocchiamo quasi cibo. Seduti l’uno di fronte all’altra divoriamo parole, sguardi, sorrisi, risate, insulti, riflessioni, accenni alla sera precedente. Che riempiono più di qualsiasi california roll. Improvvisamente mi rendo conto che è da un po’ che non guardo l’orologio. Le 14:55. “Oddio è tardissimo!”. La stazione è a due passi, ma dobbiamo ancora pagare il conto. Stavolta sono io a decidere di dare una sgommata a tutta quella situazione. Non posso permettermi passi falsi, mi dico, non di fronte ai 5 minuti che mi separano dalla salvezza e che mi riporteranno nel mio mondo sana e salva. Mi alzo e prendo le mie cose alla rinfusa. Mi avvicino a lui, ancora seduto e incapace di muoversi. “Ti lascio la mia metà”. “Lascia stare, bestia. Avrei offerto comunque io”. Lo guardo piena di gratitudine. E di tristezza. “Grazie di tutto, balordo!”. Mi avvicino per dargli un bacio sulla guancia. Lui si volta piano. Le mie labbra, che avevano già scelto la loro direzione, si fermano a qualche millimetro dalle sue. I nostri cuori battono all’impazzata. Ma lo bacio sulla guancia, anche se mi morderei tutte e due le labbra pur di baciarlo davvero. Mi stacco, mentre la sua mano accarezza, lasciandola andare mentre alzo la testa, la mia ciocca di capelli. La sto invidiando quella ciocca. Perché è arrivata più vicino alle sue labbra. Senza guardarlo oltre esco correndo dal ristorante per prendere al volo, e grondante di sudore, il mio treno diretto a Roma.
Sono passati due mesi e siamo in piena estate. Fuori c’è il luminoso sole di Roma a farmi compagnia e anche qualche soffio di vento caldo.
Non sto nella pelle all’idea che tra poco andrò in ferie. Anche se tecnicamente, dato che non ho ancora iniziato a lavorare nel mio ufficio, non posso definirle tali. Diciamo piuttosto che andrò in vacanza forzata con il cervello nell’attesa di riprendere a settembre con l’apertura della mia agenzia. Se ci penso sono così agitata! Sono seduta di fronte al pc, ma non sto guardando affatto lo schermo. Decido di mettere un po’ in ordine e, nella pila di cosedaleggerenonappenastaccheròilcervello, mi ritrovo in mano il mio quaderno giallo degli appunti. Sorrido e faccio per aprirlo, quando mi cade maldestramente dalle mani, seminando sotto la scrivania decine di fogli sparsi. “Perfetto. Almeno ora so cosa fare!”. Li raccolgo uno per uno per rimetterli nel loro ordine dentro il quaderno, quando rimango colpita da un cartoncino più spesso degli altri. È un bigliettino da visita di un sushi bar. IL sushi bar. Lo giro e leggo. “Venerdì pranziamo insieme qui. Non è una domanda. È un ordine”. Mi rendo conto che non l’ho mai visto prima. Eppure quella profezia si era davvero avverata. Incuriosita mi sorprendo a digitare quel nome ancor prima di pentirmene. Whatsapp. Aggiungi conversazione. Francesco Arezzo. Scatto una foto del bigliettino e glie la invio. Mi risponde quasi subito. “Ah, l’hai trovato finalmente”. Senza salutarlo continuo ad indagare. “Non me ne hai mai parlato”. Improvvisamente mi rendo conto che, nel mio ultimo giorno in agenzia, gli avevo detto solo quando e non DOVE avrei mangiato. “Come facevi a sapere che avrei mangiato al sushi bar anche se non avevo trovato il bigliettino?”. “È stata la prima cosa che hai detto a Angela. Che per rendere più dolce l’addio avresti scelto il tuo ristorante etnico preferito. E so che il tuo preferito è il sushi.”. Francesco, quello che non ascoltava nulla. Quello che faceva finta di fregarsene. In realtà sapeva tutto di me. Che il mio cibo etnico preferito è il sushi. Che non mangio i pomodori. E che non reggo l’alcol.
Vado in iperventilazione e mi allontano dal telefono prima di commettere qualche sciocchezza.
Esco a prendere una boccata d’aria, anche se c’è tutto tranne che fresco fuori. Il cielo è alto sopra la mia testa e i pensieri si fanno confusi. Torno davanti al pc, convinta di non aver ricevuto altri messaggi quando invece ne trovo uno. È sempre di Francesco. “Sono due mesi che penso solo a te. A quanto sono stato coglione quella sera a non fermarmi. A non credere in noi 2”. “Hai fatto bene, Fra. Non eravamo in 2 in quella macchina. Ma in 3. C’era una terza persona tra noi. Forse è un bene che non sia successo nulla. Buona giornata”. Stavolta il telefono rimane muto. Mi assale un senso di vuoto e improvvisamente torno, indietro tutta, con la mente alla volta di Arezzo. Rivivo l’arrivo, il soggiorno, le sigarette fumate come se fossero le ultime prima del proibizionismo, la mia ultima sera in città, il mohito rinforzato, i cornetti con la Nutella. Prendo in mano il telefono e digito. “Una cosa però la voglio sapere. Per chi avevi comprato il secondo cornetto con la Nutella?”.
Sono passate due settimane e Francesco non ha mai risposto alla mia domanda.
Che l’abbia infastidito l’aver citato apertamente la sua ragazza, mettendo nero su bianco l’impossibilità di pensare che ci potesse essere un noi? Sono due settimane che ci penso. Eppure in cuor mio mi sforzo di rassegnarmi. Di chiudere per sempre questo capitolo. Anche se contino ininterrottamente a pensare a lui. Anche se vorrei che le cose fossero andate diversamente. Eppure no. Basta Mel. Devi dimenticarlo. Era una storia i-m-p-o-s-s-i-b-i-l-e. Distanze geometriche, geografiche, anagrafiche. Del resto mi rimarrà sempre un bel ricordo, no? Però non posso, mi dico, fare in modo che quella domanda senza risposta sia l’ultima banale battuta di un film in bianco e nero sbiadito. Mi decido a chiamare Angela, con la scusa di augurarle buone vacanze, facendo la vaga. “Francesco? Sono due giorni che non viene. Mi ha detto che ha bisogno di ferie per stare con la ragazza. È proprio uno scansafatiche!”. “Beh si. Certo. Grazie Angie, ancora buone vacanze!”. Senza nemmeno sentire la risposta butto giù. Che povera idiota che sono! Quello non ci pensa lontanamente a me! Mi ritrovo, puntualmente, ad insultarmi per le puntuali figure di merda che mi ritrovo a fare. Ok, non con un pubblico esigente ma con qualcosa di ancora peggio. Con la mia dignità. Sono ancora furiosa con me stessa quando vengo presa di soprassalto dal bip del telefono. “Se Roberta ha dimenticato di nuovo le chiavi di casa stavolta la ammazzo”, penso recuperando l’I-Phone.
1 notifica Whatsapp. No, non è Roberta. Menomale. Mi ghiaccio. Non può essere. Non posso aver letto quello che ho appena letto. Esco fuori al sole per assicurarmi che il sangue torni a pulsare e a scorrere nelle vene. Che il mio respiro torni ad essere normale e non iperaccelerato. Che il mio cuore riprenda a battere regolarmente.
Sorrido. E stavolta non solo con la bocca. Sto sorridendo dentro. Di cuore. Dopo tanto tempo, un tempo indecifrabile che non so più quantificare.
“Non c’è più un 3. Ora c’è solo un 2. Il secondo cornetto con la Nutella è sempre stato per te”.
Francesco mi manda una foto su Whatsapp. È la foto del navigatore della sua Ypsilon. “Arezzo – Roma. Tempo di percorrenza 3 ore”. Con la inequivocabile didascalia. “Sto arrivando da te. Aspettami bestia!”.




Mi chiamo Melania Romanelli e sono una Coach alimentare. Dopo 20 anni di lotta contro il mio disordine alimentare ho vinto la mia battaglia, e oggi aiuto le persone con le problematiche alimentari a vincere questa sfida.
Dal 2019 ho creato il PERCORSO BED LIONS, la prima piattaforma online per combattere le problematiche alimentari con il supporto del coaching e del mentoring, che sta già aiutando centinaia di persone in Italia.
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