Metti una ragazza occidentale, con le cuffie nelle orecchie e un quaderno di Marilyn Monroe tra le mani, per 48 ore dentro una comunità musulmana di Londra.
Ecco il mio racconto!
INDICE
“E io come ci sono finita qui?”.
Con gli occhi scorro i volti dei presenti. Chi più rilassato, chi meno, chi appisolato, stanco dopo il viaggio aereo turbolento, chi discute la sua opinione su argomenti di attualità, chi si illumina raccontando luoghi ed esperienze personali. Eppure, glie la leggi negli occhi. L’eco dell’attacco a Westminster che 10 giorni fa ha colpito la città è ancora forte e risuona nel cuore di ognuno dei presenti. Un’eco che sa di rabbia, nervosismo, insofferenza. L’indignazione di chi conosce ma che assiste, per certi versi impotente, alla messa in scena dello spettacolo in bianco e nero dei “buoni” vs. i “cattivi”. Perché i cattivi sono sempre gli altri da noi. D’altra parte, dare una luce “altra” all’Islam, attraverso i volti generosi delle persone che ci ospiteranno, è lo scopo finale di questo viaggio.
Sono nel pulmino insieme con la delegazione italiana e stiamo raggiungendo il nostro albergo per prepararci velocemente alla conferenza stampa.
Cerco di parlare poco, ascoltare molto e pensare rapidamente, perché temo che poi avrò poco tempo per farlo, specie per raccogliere i pensieri e metterli in fila in sensazioni ed emozioni di senso compiuto. Stiamo per essere catapultati, infatti, in una due giorni ricca di eventi e manifestazioni, che culmineranno con l’incontro tanto atteso con il Califfo Hazrat Mirza Masroor, il capo spirituale della comunità. Mi sto avventurando in punta di piedi verso un territorio sconosciuto, con la curiosità del viaggiatore e la fortuna del principiante. Ad essere sincera, non so proprio cosa aspettarmi.
La partenza
Conosco Sumera tramite un sito per il quale lavoro come copy. O per meglio dire, “su” un sito, visto che non ci siamo mai incontrate di persona. Il suo nome è imponente, e cerco di immaginare un volto che possa almeno in parte rendere onore a quel mondo che ogni volta che le scrivo si apre nella mia testa. Presa dal lavoro di routine e creativo, in questi mesi l’ho sempre richiuso, quel mondo, pensando a Sumera come ad una persona che prima o poi avrei incontrato. Un mese fa mi scrive: “Melania, are you by chance a journalist?”.
Le serve una blogger per coprire un evento a Londra.
Sarò ospite con una delegazione italiana di giornalisti e esponenti della cultura vicini al mondo religioso e islamico.
Mi chiede se sono interessata… tempo mezz’ora e abbiamo già prenotato il mio biglietto aereo per il 25 marzo. Destinazione: il Peace Symposium della Comunità Ahmadiyya a Londra! Faccio la valigia, preparo penna e quaderno e alleno gli occhi con un po’ di studio preliminare, pronta a raccontare al meglio il mio viaggio nel cuore dell’Islam!
Quando arriviamo nel luogo della conferenza stampa, dopo 10 minuti totali di “riposo” in albergo, sono tutta scombussolata: maledetti dossi londinesi! Una tragedia per uno stomaco come il mio che soffre il mal di tutto e ha già affrontato 16 ore di macchine, autobus, aereo, pulmini e la guida sportiva degli autisti pakistani. “Sì lo so, qui guidano come a Napoli e come ad Islamabad, che per me sono la stessa città”. Mi sorprendo a sorridere senza alzare lo sguardo, troppo presa a versare l’OKI in un bicchiere di plastica mentre tento di reggere in modo goffo il quaderno di appunti di Marilyn, il mio zaino nero e e la bottiglietta d’acqua con la stessa mano.
Finalmente alzo gli occhi: un omone mi sta porgendo il suo aiuto. Ha gli occhi buoni, il tipico copricapo musulmano sulla testa e un accento romanesco inaspettato che mi fa sentire subito a casa. È della comunità Ahmadiyya di Roma e mi chiede di chiamarlo Sandro, una richiesta bonaria a chi sbaglia costantemente il suo vero nome. Mi faccio una risata e accetto l’aiuto di “Sandro”. Spero che la medicina faccia subito effetto: sta per cominciare la conferenza stampa e io non posso permettermi debolezze.
L’incontro con Sumera
Gli occhi di Sumera, che incontrano i miei, li riconosco in lontananza. Non ci siamo mai viste di persona, ma già mi sembra di conoscerla da sempre. Sorride mentre si avvicina, certa anche lei di avermi riconosciuta senza bisogno di presentazioni. Sono occhi neri, brillanti, che spiccano grazie al velo di seta che le cade delicato intorno al volto, illuminandolo e incorniciandolo in un’allure principesca. Mi abbraccia con trasporto. Veniamo da mondi agli antipodi: lei moglie dell’Imam Ataul Wasih Tariq, madre di 2 bambini e in attesa del terzo, che sogna di poter tornare in Pakistan da donna libera (la comunità Ahmadiyya è duramente perseguitata in Pakistan); io viaggiatrice in solitaria, che sogno di poter trovare la mia “casa” nel mondo. Eppure, siamo coetanee, due ragazze curiose l’una dell’altra, l’una delle passioni dell’altra, l’una del mondo dell’altra.
Mi racconta del suo, Sumera, vissuto dentro la cornice della comunità Ahmadiyya. Un mondo fatto di bianchi e di neri. E non sto parlando del colore della pelle, ma del colore dei muri. Quelli che si alzano quando la cultura, il pregiudizio, la distanza si mettono in mezzo.
Il bianco di un bicchiere di latte offerto a colazione alle persone ospitate, il bianco delle pareti degli ospedali costruiti dalla comunità per aiutare i deboli e i bisognosi, il bianco della stazione radio, che diffonde le parole del Califfo ogni Venerdì dalla sua Fazl Mosque di Londra (bianca, anche lei).
E il nero. Il nero delle persecuzioni, il nero dell’isolamento, di quando in Pakistan non ti vendono neanche un filoncino di pane se ti conoscono come Ahmadiyya, il nero dei copricapi degli uomini che non sono liberi di professare liberamente il loro credo.
Fatta di 2 mondi al suo interno, contrapposti, inavvicinabili l’uno all’altro. Quello dell’amore e quello del terrore. Quello della fede e quello dell’estremismo. Quello delle radici e quello della radicalizzazione.
Due mondi che, dentro la comunità Ahmadiyya, non hanno senso alcuno. Perché l’Islam, in effetti, è una sola religione. Di pace, di rispetto, di amore. E me lo ricorda con forza Sumera, che mi guarda dritta negli occhi senza lasciarmi mai. Quasi come se volesse forzarmi a capire, ad entrare dentro di lei. Specie quando mi parla delle donne. Donne rispettate, donne intoccabili, donne libere. Mi sento minuscola quando, parlando di rispetto, Sumera mi racconta di come la donna sia talmente un essere sacro, specie quando è legata ad un uomo, che a sfiorarla anche con la mano si commette peccato. Sacra come figlia, perché apre le porte della felicità al padre. Sacra come moglie, perché completa l’uomo e gli dà senso. Sacra come madre, perché racchiude in sé l’essenza stessa del Paradiso.
Il rispetto verso l’amore e verso il legame, qui tra queste bianche mura illuminate da un verde inaspettato, si respira davvero come qualcosa verso il quale abbassare il capo. Un qualcosa che suscita in me riverenza e anche un tantino di invidia, pensando al caos delle relazioni liquide che governa il mondo dal quale provengo io.
Il Califfo Hazrat Mirza Masroor
Domenica mattina, assieme ai membri della Comunità Ahmadyya Italia, incontro Sua Santità il Califfo Hazrat Mirza Masroor dentro la sua residenza privata. È una persona magnetica, il Califfo, dalla imperturbabile regalità che proviene da un luogo dell’anima ancestrale: un luogo di pace capace, al tempo stesso, di condannare fermamente ogni forma di prevaricazione, ingiustizia, disonestà. I suoi occhi concentrati e fermi, che durante il Simposio di sabato hanno incantato assieme alle parole tutti i presenti, durante l’udienza privata di domenica mattina sono diventati vispi e curiosi: sono gli occhi di chi vuole bene alla sua Comunità, di chi ci tiene a diffondere il vero gioiello racchiuso nello scrigno del Corano, di chi chiede alla stampa un animo puro per vedere la realtà e per raccontarla con onestà ai lettori. Di chi vuole diffondere al mondo “the true teachings of Islam”, i veri insegnamenti dell’Islam, che molto spesso collassano sotto i colpi delle bombe e delle armi di distruzione.
Ci ricorda di concentrarci su noi stessi, cercando e scoprendo il nostro sé più autentico, e di lavorare sul nostro cuore, un macchinario potente e sofisticato che spesso si inceppa, si rimette in moto, ma sempre con qualche pezzo in avanzo o con qualche guarnizione difettosa.
Intuendo il turbinio di dubbi ed emozioni che da due giorni a questa parte non mi molla, è il Califfo a spiegare come si fa a riparare un cuore malandato: “being honest”. Onestà e amore incondizionato per gli esseri umani: questo il “right thinking”, il pensiero che conduce dritto verso un luogo di pace, bellezza e gratitudine per tutti gli esseri viventi.
Tornare a casa con il cuore pieno
Il sole è alto nel cielo di Londra. Sono sul pulmino diretto verso l’aeroporto. Sto per tornare a casa. La mia valigia è stracolma e ogni volta mi chiedo come faccia a riempirla così, specie in 48 ore. Eppure, ciò che mi sto portando a casa ha poco a che vedere con la materia. Non vedo l’ora di mostrare a mia madre la foto che hanno scattato di fretta a me e Sumera: sorprese dal flash, sorridenti e con gli occhi che brillano sotto il bianco e il verde della Moschea.
Nonostante i dossi londinesi mi scombussolino lo stomaco, le guarnizioni del cuore, oggi, funzionano tutte perfettamente.

Mi chiamo Melania Romanelli e sono una Coach alimentare. Dopo 20 anni di lotta contro il mio disordine alimentare ho vinto la mia battaglia, e oggi aiuto le persone con le problematiche alimentari a vincere questa sfida.
Dal 2019 ho creato il PERCORSO BED LIONS, la prima piattaforma online per combattere le problematiche alimentari con il supporto del coaching e del mentoring, che sta già aiutando centinaia di persone in Italia.
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