Roma 2016. Ho appena smesso di mangiare i muesli. Non che il pensiero costante della scatola che ho riposto con forza nel cassetto alla mia sinistra mi abbia abbandonato, intendiamoci.

Eppure c’è un momento in cui bisogna dire “stop”.

Quel momento in cui sentiamo di aver superato il limite. Fisico, mentale. Perché so per certo che è tutto collegato. Ogni boccone ingerito, ogni milligrammo (ammesso che sia questa la misura giusta, boh) di ossigeno ingurgitato con foga e che ci fa irrimediabilmente gonfiare è una questione di testa. Come l’alcol al quale non riusciamo a dire no, come gli arachidi con tutto quel sale che ci dà alla testa, come quel tocco di fumo che non riusciamo a buttare nel cesso. Sì, perdio, queste cose hanno un’anima. Le senti chiamarti, invitarti, perché che cavolo, ti ripeti, è solo una dannata canna. Che vuoi che faccia al giorno d’oggi! C’è di peggio, ti racconti. I muesli, ebbene. Sono sempre stata una persona golosa, una persona il cui benessere e malessere passano necessariamente per via orale, la cui continua lotta per la sopravvivenza e il piacere derivano costantemente dalla bocca. La bocca, questa maledetta. Questa che avrei voluto chiudermi tante di quelle volte. Ogni tanto anche per non proferire parole, quelle che ti lasci scappare e non dovevi. Oggi ci sono le mani a sostituire le parole. Decine e decine di tac, tasti che si muovono veloci sotto le dita ancora più veloci. Una tastiera di un pc, obsoleta ormai, uno schermo di uno smartphone e ci metti poco a fregarti con le tue stesse mani, appunto. Eppure, eppure tu non hai impiegato nemmeno un secondo per muovere le tue sullo smartphone, Lorenzo. Non mi hai fatto neppure gli auguri nel giorno del mio 33 esimo compleanno. Che sensazione mi ha dato? Ti ho rivolto un sorriso di comprensione. Certo certo, mi diresti, però l’hai notato e ci stai addirittura scrivendo un racconto sopra. Vero. Eppure ho sorriso.

Che cosa pretendi che faccia dopo due anni e mezzo di sabbie mobili? Di polveri sottili che mi hanno impedito di respirare per un bel po’? Che stessi ancora qui a struggermi? No grazie, ho già dato. Il mio compleanno è passato senza un tuo augurio, pensiero, parola, opera. Ma con una bella omissione. Che mi consente di andare avanti in maniera DEFINITIVA.

È come se finalmente riuscissi a vedere tutto in prospettiva. Come quando siedi di fronte alla parete piena di foto che hai sistemato con tanto amore e devozione, un momento che neppure l’accensione di una candela in chiesa richiede tanta concentrazione, e improvvisamente vedi il passato. Come sarebbe quella parete se improvvisamente togliessi tutto? Ci voglio provare. Ho fatto due traslochi eppure il collage della nostra estate addosso è ancora qui che mi osserva. Come se avessi voluto portare in ogni nuova casa un po’ di passato, quasi ad avere conferma che non sono ancora pronta per voltare pagina. Pero adesso lo sono. Le voglio staccare ad una ad una le foto da questa parete. E questa notizia non può che lasciarmi un grammo di stupore, misto sollievo, misto consapevolezza, misto gioia. E misto gratitudine. Sì, gratitudine. Non voglio stare qui a fare l’ipocrita, non è un modo di essere che mi appartiene e che mi è mai appartenuto. Quindi ti dico davvero quello che sento oggi per te. E quella sensazione si chiama gratitudine. Ti sono grata, Lorenzo, perché senza di te non sarei quella che sono ora.

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La prima foto che tiro via è quella che ho scattato alla mia postazione l’ultimo giorno di lavoro. Quasi quasi mi commuovo.

Ci sono tutte le mie cose ordinate. E tutti i post it che tra colleghi ci lasciavamo per prenderci in giro e per allietare le nostre ore dentro quel tugurio di seminterrato. Nella foto noto un bigliettino arancione “Ore 11:45, 26 giugno”. È il tuo. Mi stavi indicando la puntata di un programma tv nel quale si parlava di viaggi on the road negli Stati Uniti. Si parlava, quindi, del mio sogno. E il fatto che tu lo conoscessi mi colpì talmente tanto che decisi di tenere quel bigliettino. Del resto tanta attenzione in un mondo di smemorati disattenti va celebrata in qualche modo, pensai.

“Ma come è possibile che ogni volta che vengo nella tua postazione a salutarti finisco che ci rimango almeno 20 minuti?”. In piedi vicino a me, continuavi a parlare. Quella domanda mi fece tanto sorridere, me lo ricordo bene. Avevi lo sguardo fisso su di me, incredulo anche tu del milione di parole parlate in quei 20 minuti. Spaziavamo su tutto: lavoro, casa, relazioni, la città. E poi ci salutavamo sempre con una fastidiosa sensazione di inconcludenza. Non era abbastanza il tempo che potevamo dedicarci. A lavoro eravamo seduti lontani. Io in una stanza e tu in un’altra. Avevamo solo quegli sprazzi di conversazione, o qualche fugace battuta in pausa pranzo, eppure erano sempre dei lampi di luce durante le decine di giornate piovose che anche l’inverno romano sa regalare agli illusi delle perpetue temperature “miti”. Miti un corno, era sempre una pausa pranzo al parco e sotto la pioggia, condizione che non ci ha mai consentito più di uno scambio frugale di frasi leggere, appunto. Poi un giorno di maggio, in uno dei tanti saluti in postazione, mi hai detto: “Si, la novità è che mi sono lasciato da poco. I miei mi stanno tartassando per questa decisione però io sono sicuro… aspetta un attimo…. ma perché te lo sto dicendo?”.

Ricordo che entrambi sorridemmo di quella tua confessione così intima, tanto intima che te ne andasti subito dopo, forse turbato al pensiero del contenuto di quel messaggio.

Non era un periodo facile, te lo si leggeva in faccia. Del resto sapevo bene riconoscere un cuore infranto quando mi passava davanti. Ero appena uscita da una convivenza di 3 anni e mezzo, due dei quali passati a chiedermi se quella fosse davvero la mia strada e se non stessi invece sedendo sugli agi di una vita comoda e sedentaria, ma tutto sommato “rassicurante”. Rassicurante. Mi ha sempre spaventato il termine e la sensazione che lo abita. L’idea di fare qualcosa perché ci sentiamo “comodi” nel farla è spaventosa. Più del vero timore di fare qualcosa di nuovo, cercare una nuova strada, avventurarsi in un salto nel buio. Non sono mai stata brava a saltare. Ho sempre cercato sicurezza intorno a me. E quella storia, e con essa la convivenza, era arrivata in un periodo nel quale ero persa, e bramavo amore. Lo trovai, quel momento di sicurezza. Ma non sono mai stata convinta di aver trovato, all’epoca, l’amore. Ancora oggi nutro i miei dubbi in proposito. Lo vedi come cambia tutto col passare del tempo? La prospettiva è tutto ciò che abbiamo. A distanza di tempo le ferite si rimarginano e la vista si fa più lunga, più lungimirante. Prima che si appanni di nuovo. La mia ci mise poco ad appannarsi. È stato quando ti ho “visto” per la prima volta.

Era da poco arrivata l’estate quando mi licenziai. Non sopportavo più quel posto, né i capi che avevamo. Tu eri molto paziente, quasi zen, mentre io ero diventata intollerante a tutto. In ufficio ero sempre nascosta dietro al pc e annebbiata dalla musica a tutto volume nelle cuffie. L’unico momento di luce era vederti comparire con quel sorriso bianco e quegli occhi luminosi, nonostante la sofferenza fosse evidente. Ma alla fine di giugno decisi ugualmente di andare via. Con la scusa dell’estate romana alle porte promettemmo di vederci fuori, “usciamo con gli altri tutti insieme, ok?”.

Ancora me la ricordo la nostra prima “uscita fuori”.

1 luglio. Sto aspettando il mio amico Carlo (una specie di Panda inconsapevole, dolce e rabbioso allo stesso tempo, all’epoca mio grande confidente) seduta sulla ringhiera di fronte alla Rinascente. La musica nelle orecchie mi distrae dal caldo boia che fa. Adoro l’estate romana. Sarò pazza ma quella cappa di umidità mi ha sempre fatto sentire parte della città: le conversazioni sul caldo, il finto stupore sui picchi massimi delle temperature, le ore di coprifuoco più simili alla siesta spagnola che alla reale necessità di “non uscire nelle ore più calde”… sono uno dei pochi momenti dove mi sento romana al 100 %, specie quando posso vantarmi di sopravvivere a quel clima tropicale con i miei genitori abruzzesi. Sto ancora cantando una stupida canzone pop quando ti vedo arrivare. Sprizzi una vitalità inspiegabile. Saranno i colori che indossi: il bianco dei pantaloncini, l’azzurro della camicia, che porti un po’ larga e con le maniche rigirate come piace a me. O saranno quei dannati occhi, luminosi ed espressivi, che ogni volta mi lasciano pensierosa. C’è qualcosa in te che mi parla di nuovo, e che mi lascia piacevolmente stupita. “Ciao bionda”. “E tu che ci fai qui?”, ti chiedo con un sorriso da ebete. “Quella bestia di Carlo non te l’ha detto che sarei uscito anche io?”. È evidente che, entrambi ignari, ci stiamo godendo quel momento insieme da soli per la prima volta. Per una volta un ritardo non è poi così fastidioso. È strano parlare illuminati dalle luci della Rinascente, e non da quelle di un pc nel buio di un seminterrato. È tutto più underground, più magico. Parliamo di tante cose in quei 15 minuti di attesa. Che sembrano 1000 tante sono le parole parlate. Mi dici che i tuoi sono in ansia perché tuo fratello vuole andare via per convivere con la ragazza. Mi dici che non ti sei lasciato per convinzione ma per necessità, perché hai scoperto che lei ti ha messo le corna con un tuo amico. Mi dici, con uno strano ghigno sul viso che non ti ho mai visto prima, “perché diavolo ti racconto tutto di me? Queste cose non le dico mai a nessuno”. Non ne ho idea, mi dico io, “but it feels good”, come dicono gli inglesi. Come se ci fosse un collegamento ad un server al quale siamo entrambi connessi.

Un’energia che si muove tra i fili invisibili che mi fa stare bene. Che CI fa stare bene, mi scopro a pensare. Non ho possibilità di rispondere a quella domanda a tratti imbarazzante perché arriva Carlo. Al momento giusto? Non è quella la sera nella quale lo scopriremo.

Saliamo in macchina. Direzione Festa dell’Unità. Biliardini, cibo a volontà, fiumi di birra, mercatino. Passiamo la serata a fare chiacchiere tra amici. Ci raggiungono anche altri colleghi e io e te abbiamo poco tempo per stare soli. Ci pensano i nostri sguardi, che possono cercare indisturbati il loro spazio tra la folla, a rimediare a quella ingiusta distanza.  Li sento vibrare, raccontare, ritrovarsi. Il ritorno alla macchina ha di nuovo quella inspiegabile eppure elettrizzante sensazione di “casa”. Mi parli dei tuoi progetti per le vacanze. “Mi piacerebbe partire per la Cappadocia”. Non hai modo di continuare, costretti come siamo a salire in macchina avvolti tra la “folla” di disturbatori. Due casti baci insoddisfacenti pongono fine alla serata. Ti volti dopo avermi salutata sotto il portone di casa in compagnia del Panda, che mi ha riaccompagnata per prima a casa. Chissà di che parlerete al vostro ritorno, mi sorprendo a pensare mentre infilo le chiavi nel portone. Quella notte dormo. Rannicchiata ginocchia al petto, quasi a voler fermare quelle vivide saette che mi trapassano. Ma con un sorriso stampato sulla faccia.

Lo stesso che ho adesso mentre osservo la seconda foto che metto via, quella datata 6 luglio.

Perché ricordo ancora la data? Perché è stato un giorno importante, il primo giorno di quel qualcosa che poteva essere chiamato “noi”. Esattamente una settimana dopo la nostra prima uscita corale alla Festa dell’Unità, infatti, riceviamo tutti un invito su Facebook dal Panda. È la sua la mano che ha scattato questa foto. C’è lui, in preda ad una posizione strana a la selfie, c’è il nostro amico Sirio. E poi ci siamo io e te, seduti sull’erba. I corpi abbronzati, gli sguardi sereni. I sorrisi che cercano la camera.

“Domenica picnic al Parco. L’ho detto a quelli del lavoro, ci sono anche Sirio e Lorenzo”. Lorenzo che si prende una domenica di libera uscita dai lavori al pc per il giornale? Strano, borbotto tra me e me, che implicitamente sto già pensando a cosa mettere ancor prima di rispondere al messaggio. Un’ora di prove allo specchio e mille tentativi di ricordare a me stessa che “è solo un picnic” e alla fine opto per un paio di denim shorts e un top nero senza spalline. Al collo la mia collana portafortuna, ai piedi le immancabili All Star nere. Casual e sexy. Come deve essere. Mi sento a mio agio mentre arrivo a piedi all’ingresso del parco. Stavolta sono io l’ultima e mi tocca salutare tutti. Lorenzo è il primo a rivolgermi lo sguardo, ticchettando sull’orologio per strigliarmi sul mio “imperdonabile” ritardo. “Proprio te parli?”. Lorenzo è famoso per farsi attendere. Ed è anche famoso per stuzzicarmi, solo che oggi lo fa più del solito. Il clima tra noi è “elettrico”. Battutine, frecciatine, giochi adolescenziali per i quali coinvolgiamo fiori erba carte in un tiro al bersaglio nel quale finiamo pari e con l’azzuffarci. “Dai vieni a giocare a pallavolo” “Non ci penso nemmeno”, rifiuto sagace, “nessuno può distogliermi dalla tintarella al sole”. Sono ancora stesa ad occhi chiusi quando mi sento tirare i piedi. È lui, che mi fa fare un giro per alcuni metri in quella imbarazzante posizione. Risultato: sedere graffiato e shorts preferiti macchiati irrimediabilmente di erba. “La pagherai molto cara”. Il pomeriggio prosegue rilassato. Almeno fino a quando ho la mia rivincita. Gavettone inaspettato tutto addosso a lui. “Così la smetti di lamentarti per il caldo”. Ci guardiamo, ci rincorriamo. Ci stiamo annusando, prendendo le misure di ciò che potrebbe essere, che non siamo sicuri sarà. Eppure qualcosa già c’è. E non siamo solo noi a notarlo.

“Secondo me Lorenzo entro una settimana ti chiederà di uscire”, tuona il Panda quando siamo soli e abbiamo salutato tutta la comitiva.

Torno a casa con quelle parole che mi martellano in testa, ancora eccitata per l’intera giornata. In metro sto osservando due ragazzi seduti l’uno di fianco all’altro, che sorridono e si scambiano messaggini d’amore anche se sono praticamente attaccati, quando all’improvviso mi viene in mente: ora ho anche il suo numero! Me lo ha dato lui per inviarmi una foto fatta a due vecchietti che circolavano nel parco intimamente in trattore. Sa che adoro le coppie di anziani: contro ogni previsione infausta e abitudine sono lì a ricordarmi che davvero l’amore, quello vero, può durare una vita. Qualche giorno dopo sento il telefono vibrare. Guardo la foto che mi è appena arrivata: una coppia di anziani che passeggia mano nella mano nella strada del nostro vecchio ufficio. “Aggiungi questa alla tua collezione”. Lorenzo ha sempre saputo usare le parole.

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Sono passati giorni e quello stesso telefono smette di suonare. Una sera sto impazzendo sul letto rovente tanto è il caldo e non so davvero come uscire dallo stato di “urgenza” che non mi dà pace.

Quella che provo è smania. Smania di stabilire un contatto. Smania di provare un’emozione. Smania di sentirlo. Mi sento immersa in un momento di pura filmografia adolescenziale, anche se di anni ne ho qualcuno in più. Chissà che starà facendo? Che faccio gli scrivo su whatsapp? Perché non mi viene in mente una frase ad effetto? Filmografia che si trasforma in genere horror quando inizio ad impanicarmi. Perché non mi scrive? Non gli piaccio? Perché non mi pensa? C’è qualcun’altra? Cosa fare in questi casi? Facile! Dato che siamo incapaci di ragionare in modo sensato non possiamo fare altro che affidarci a forze esterne. Ed è così che giro per casa alla ricerca delle mie coinquiline per farmi illuminare. So che cercheranno di distogliermi dal commettere un reato, ovvero quell’imbarazzante messaggio di cui ti penti appena premuto “invio”, ma sotto sotto cerco qualcuno che mi dica “vai buttati!” (nel senso di scrivergli, non buttarsi dal 4° piano eh). Incredibilmente lo trovo. Marcello, il ragazzo della mia coinquilina, steso sul letto a quattro di bastoni, mi guarda come si guardano le donne che sotto la metro si improvvisano suonatrici di fisarmonica e imitatrici della Pausini e ti fracassano i timpani mentre nelle cuffie cerchi di ascoltare senza capire un tubo la tua canzone preferita. So cosa vuol dire quello sguardo. Dopotutto è un uomo, e io sono nel pieno di una puntata di Scream Queens. “Melania, per amor del cielo, se non gli mandi ‘sto messaggio glie lo mando io”. Senza avere il tempo di capire cosa sta accadendo osservo Marcello che con nonchalance prende il telefono dalle mie mani e inizia a digitare. Ebbene sì. Il mio primo messaggio a Lorenzo è nato dalla penna di un uomo. E in men che non si dica il mio ghost writer mi porge il telefono: “Ti ho preparato il terreno, ora vedi di farti invitare ad uscire entro la serata. Non mi parlare fino a quando non ci sei riuscita”. La mia coinquilina sta ridendo come una matta sul letto, Marcello mi sorride soddisfatto e io me ne ritorno in camera con la coda tra le gambe per non aver ancora capito nulla degli uomini. Sono comunque elettrizzata. Perché Marcello ha preparato sì il terreno al posto mio, ma io mi rendo conto che c’è del terreno fertile. Perché Lorenzo c’è. Lo sento. Apro la sua foto di whatsapp. Un ragazzo e la sua tavola da surf, di spalle, mentre sfidano il mare. È lui, ovviamente. Decido di giocare un po’. “Bello questo ragazzo di schiena”. “Vuoi che ti passo il suo numero così gli chiedi di uscire?”. “Dici che accetterebbe?”. “Prova”.

Sta succedendo, non ci credo, sotto i miei occhi.

Non do nemmeno il tempo a me stessa di formulare una frase carina che i miei occhi sono pronti a leggere “Bionda, mettendo da parte le metafore. Ti va se domani ci prendiamo un aperitivo?”. E in men che non si dica ho un appuntamento. Con Lorenzo. Io adoro whatsapp quando non mi fa soffrire e fa quello che dico io!

Il giorno seguente…già lo sapete. “I believe in PINK”. Una adolescente senza speranza. Senza ritegno anche. “Oddio cosa mi metto?” “Oddio mi devo depilare”. “Oddio guarda che capelli… ma li ho lavati ieri sera… va beh ma si sono sporcati dormendo no?”. “Oddio sono ancora in tempo per una liposuzione veloce?”. Controllo il telefono ogni 5 minuti sperando che il tempo passi più in fretta possibile, che arrivino le 19…anche se ogni secondo l’ansia sale e il groppo in gola anche. Non ricordo un tempo in cui sono stata più emozionata di quel momento. Le gambe letteralmente mi tremavano: dalla paura, dall’eccitazione, dalla gioia. Perché alle 19 sarei stata esattamente nel posto in cui volevo essere e con la persona che volevo. Perché non ci sarebbero stati regalati solo 20 minuti, ma la notte, Roma, le stelle.

Lorenzo arriva puntuale. Il sorriso. È la prima cosa che noto. Gli occhi. La seconda. Le mani. La terza.

Bianco splendente, brillanti e vivi come mai prima, tremanti quasi come avesse paura a sfiorarmi. È qui per me. Non ci incontriamo in una pausa pranzo fortunata. Non abbiamo solo la scusa di un caffè. Lorenzo è qui. Ed è bello. Me ne rendo conto solo in quel momento. E mi scopro a pensare a quanto questa parola sia associata all’estetica, come se non ci fosse possibilità di scavarle dentro, come se non potesse essere uno scrigno capace di contenere uno strato di verità più profondo. Lorenzo è bello perché è uno scrigno. È bello quello che esce dalla sua bocca, è bello quello che le mie orecchie ascoltano. Estasiate, troppo per un primo, innocente, aperitivo. È bello quello che vede attraverso i suoi occhi, dettagli che per la maggior parte delle persone sono insignificanti. Ma lui li vede, e sa dare loro dignità con il racconto. È bello quello che trasmette, anche per il semplice fatto di respirare, osservare, odorare. Ed è bello quello che scrive. Lorenzo, tra i suoi mille impegni, è un giornalista. Sa dove e come mettere le parole. E mi rendo conto, mentre pianeta terra chiama Mel sottoforma di cameriera che chiede se vogliamo altre patatine alla paprika, che non smetterei mai di ascoltarlo. Eppure non è quel tipo di appuntamento, con lui. Non è la classica persona self-centered, che si anima solo a parlare di se stesso. È uno che chiede. Che osserva, che sorride, che pensa, che ascolta. E in men che non si dica mi sorprendo a raccontargli di me. Della mia adolescenza problematica, della mia solitudine, del mio problema con il cibo. Ora sono io che gli chiedo perché gli sto dicendo cose di me che non ho mai raccontato a nessuno. E ridiamo del fatto che abbiamo superato in circa mezzora la fase “colore preferito”. Non c’è alcun colore che possa illuminare più di quanto non facciano i nostri sguardi, le nostre labbra, le nostre mani. E i nostri corpi. Che fanno fatica a contenersi, quasi incastrati dentro le sedie, nel cercarsi, nel fiutarsi, nel volersi. Io e Lorenzo parliamo anche quando stiamo zitti. Perché sono i nostri occhi che si capiscono. Si stancano anche, perché non cercano altro evaporando lo sguardo a destra o a sinistra, perché rimangono fissi l’uno nell’altra.

 

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“Ti va se ci facciamo un giro?”. Come dire di no ad una Vespa che risplende sotto le luci di Roma? Ed è proprio questo lo spettacolo.

La Roma del centro, immacolata, candidamente unica, che ti spezza il cuore per quanto è splendida. Cornice migliore di questo primo tocco di anime non può esserci.

E poi ci siamo noi, in tutta la nostra hollywoodiana aura, che girovaghiamo ridendo e parlando. Non la smettiamo di parlare. Anche quando parcheggiamo ed entriamo nei vicoli di inizio settimana per fortuna deserti, cristallizzati dalle poche gocce di pioggia del giorno precedente. Anche quando ci perdiamo. Anche quando Lorenzo mi prende la mano quasi senza accorgersene. E anche quando in quel momento mi manca il respiro e cerco di non darlo a vedere e continuo a parlare. Non smettiamo mai di parlare. Di noi, delle nostre famiglie, dei fratelli che noia che barba ma che poi amiamo senza condizione, della vita. Dei nostri viaggi già programmati nella testa ma che dal corpo escono in tutta la loro maestosità. “Ti ci porto un giorno in Cappadocia con me”. E io ci verrei Lorenzo, verrei ovunque con te. “Questo è il mio vicolo preferito, c’è una parete con una pianta rampicante. È di una casa abbandonata. Una volta con un mio amico sono entrato dentro…non puoi capire che affreschi! Che belli i muri affrescati…”. Ho la vista annebbiata. Mi sento mancare. Lorenzo se ne accorge e cerca di sostenermi facendomi sedere su un muretto. I colori sono caldi, ocra, giallo acceso, il rosso dei fiorellini che spuntano dalla parete… Non c’è nulla che non va in me. È che è tutto talmente bello che mi fa stare male. A Lorenzo dico che sono stanca e che la notte precedente ho dormito poco. Non saprà mai la verità. Si siede vicino a me e mi guarda, fissa. Osserva il mio volto, i miei nei uno ad uno, la mia cicatrice fatta quando avevo 5 anni, la mia ruga vicino all’occhio destro. “Ora sto meglio. Ho ripreso a respirare almeno”. Lorenzo mi prende la testa tra le mani, con lentezza, per assaporare ogni secondo di quel momento. “Peccato. Perché sto per farti smettere di nuovo”. Mi bacia una prima volta. Tenera, piena. Mi bacia una seconda, intensa, appassionata, da togliere il fiato, appunto. E poi non mi ricordo più… perché tutto dentro di me è esploso. Il mio corpo va da solo e non riesco a capire dove sia e cosa stia facendo, le mie mani vanno da sole. E spesso incontrano le sue. La bocca mi fa male, per quanto arde. Sento la frizione dei corpi, il cuore che pompa battiti e il sangue che con fatica arriva al cervello.  “Non so nulla oggi di me, del viaggio che sto iniziando. Ma so che ovunque tu sarai un giorno io ti verrò a prendere. E andremo in Cappadocia insieme. Ti ci porto su quella mongolfiera”.

A distanza di tempo ancora ci ringrazio per quella serata. Nascosti dalle luci calde di un vicolo. Un’istantanea di perfezione. Un inno alla bellezza. Un dolce canto di ultrasuoni. Roma solo per noi.

Un’istantanea. E una prospettiva. È quello che rimane oggi di noi, Lorenzo.

Osservo le foto che abbiamo insieme. Quelle del picnic. Quelle del nostro Ferragosto perfetto. Quando tutto era finito mi faceva un male cane riguardarle. A distanza di due anni e mezzo ancora mi sfidano. Mi emozionano, certo, ma adesso le metto in prospettiva. Quando una storia finisce c’è solo caos e recriminazioni. Caos di emozioni, tutte reali, tutte forti, ma tutte contraddittorie, sballate. Passiamo dall’amore, alla rabbia, all’odio, allo sconcerto, alla paura, alla disperazione nel giro di qualche minuto. Recriminazioni su noi stessi, sull’altro, su quel “noi” così bello e così evanescente. Un battito di ciglia ingiusto, crudele, inevitabile. Incredibile. Come si fa a non chiedere a qualcuno o qualcosa di indefinito: perché? Perché la promessa di quel “noi” è stata infranta? Perché il nostro tempo non era sincronizzato? E se ti incontrassi oggi come andrebbe a finire? Perché non mi dai le risposte di cui ho bisogno? Perché mi hai detto che saresti venuto a prendermi ovunque io fossi, un giorno? Perché non sono abbastanza per te? E poi succede. Che a distanza di qualche tempo quella “cosa” alla quale facciamo tutte queste domande ci risponde. E non è una cosa, ma una persona che conosciamo molto bene. Quella persona siamo noi. Perché solo con istantanee e prospettiva riusciamo a trovare le risposte a quelle domande martellanti. Che sia il caso, il fato, il destino, la sfortuna o a seconda dei casi la fortuna, ogni perdita ha in sé un motivo. Quello che ci frega è l’impazienza di arrivare alla fine, come se stessimo leggendo un libro bellissimo e andassimo a leggere l’ultimo capitolo per sapere subito come va a finire. Non lo facciamo per scelta, mentre con la vita non possiamo farlo per costrizione. Dobbiamo per forza passare dentro i carboni ardenti per vedere la luce. E nel frattempo ci godiamo ogni singolo passo in silenzio e sofferenza, sentendolo sulla nostra pelle. Quella che ho tra le mani adesso è la foto di una boa bianca. Non posso fare a meno di sorridere. E questa volta non può esserci rancore. Perché quella boa non ha colpa. Perché quella boa fa tenerezza. Perché quella boa ha un nome. Le abbiamo dato vita io e te. E dandole vita l’abbiamo condannata ad avere una storia. E una fine. Anche se non è quella che speravamo.

“Io la chiamerei Bianca”. Lorenzo si gira a guardarmi sconcertato. “Cioè ora tu mi vuoi dire che quella boa ha un nome?”.

“Certo, tutte le cose hanno un nome”. “No Mel, è diverso. Sei te che dai un nome a tutto. E non è una cosa normale”. “Pensaci un attimo”, gli dico, fermamente convinta. Lorenzo si mette con le braccia conserte e sorride mentre decide di ascoltarmi seriamente. “È una boa bianca come tante altre, ma in questo scorcio di mare di fronte a noi è l’unica boa. Quindi tecnicamente c’è solo lei. Quindi è unica. Cosa ci rende unici?”. Lorenzo non sta nella pelle e mi interrompe. Quando si impone il ragionamento logico non ce la fa e deve dire la sua. “Beh vediamo… il lavoro che facciamo, la bellezza, il carattere meraviglioso, la bravura a letto. Almeno parlo per me!”. Lo picchio con dolcezza mentre esplodo, tenendo il mio punto. “No! È il nostro nome! E ce lo danno da piccini così che tutti sappiano che lo scricciolo con il broncio che è appena nato è proprio Lorenzo, o quella bella bambina riccioluta è proprio Melania. Ed è unica”. Lorenzo scoppia in una tenera risata, e mentre lo fa mi abbraccia. Io mi perdo in quell’abbraccio. Le mie ginocchia al petto, le sue braccia intorno alle mie. Il mare di fronte a noi. La notte più luminosa che c’è. Una piccola boa bianca che lotta tra le onde. Bianca, quella notte io e Lorenzo ti abbiamo dato vita. Abbiamo deciso che la tua storia andava raccontata. La tua lotta tra quelle onde, la tua forza, la tua capacità di tornare in superficie. Eri bella, Bianca. Come quella notte.

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E di nuovo, la prospettiva. “Sto surfando proprio dove siamo stati quella sera io e te. Ricordi?” qualche mese fa mi sorprende questo messaggio in tempi non sospetti. Un giorno freddo che non ti ha impedito di prendere la tua adorata tavola e andare. Distesa nel letto, sola, con la mia tazza di thè tra le mani, ho avuto quasi un sobbalzo. “E la nostra Bianca? Come sta?”. Lorenzo sta scrivendo…. Lorenzo sta scrivendo…. Lorenzo sta scrivendo…. Lorenzo sta scrivendo…. “Bianca non c’è più. Mi piace pensarla libera”. Carino whatsapp, che crea pathos prima di arrivare al climax finale. La storia di Bianca era finita davvero. E senza un lieto fine. Saperla sparita, incapace a vincere le onde. Sapere di Bianca è stato quasi peggio di quella volta in cui, Lorenzo, mentre mi scrivevi mi hai detto la cosa che non avrei mai voluto sentire. “Ah, so che ti spiacerà un casino…ma ho venduto la Vespa”. E allora è proprio vero…quando costruiamo castelli sulla sabbia forse non oggi, forse non domani, ma prima o poi arriverà un’onda più forte e più grande in grado di spazzare via tutto quello che abbiamo costruito. La stessa onda che ha sconfitto Bianca. E che si è portata dietro parole, promesse, sogni, sorrisi e fede. La fede che quello che stai vivendo in quel momento è talmente reale, vivo e unico che non potrà mai avere fine. Come potrebbe?

Quella che ho tra le mani è la foto di una roccia. Quella che proteggeva la sabbia di Sperlonga. Era il 15 agosto e faceva un caldo assurdo. Non dovevi nemmeno esserci quel giorno con noi.

Saresti dovuto partire per la Spagna, da solo, in compagnia dei tuoi pensieri, della tua tavola da surf e delle onde. Eppure tre giorni prima non avevi ancora fatto il biglietto. “Lorenzo se non prendi il biglietto ti costerà una fortuna”. “Lo so, è che c’è qualcosa che mi impedisce di prenderlo. È che mi sono reso conto che a Ferragosto non c’è luogo in cui vorrei essere se non ci sei tu”. Boooom. Un colpo dritto al cuore. Non uno di quei colpi che lo frantumano, ma che al contrario lo riavviano pompando istantaneamente sangue nelle vene. Non so che faccia ho fatto, ma devo averne fatta una indescrivibile, perché la tua di concerto si è illuminata. E sei partito con una risata che non riuscivo ancora a capire. “Non capisco cosa c’è da ridere”, gli dico con un broncio ancora più divertente. “Niente, è che sei così buffa quando sei felice”. Lorenzo. Che ha rinunciato al suo Ferragosto sull’oceano per un Ferragosto sul mare. Per me. Sono certa che non hai rimpianto nemmeno un secondo di quel giorno, comunque. Perché così come tante altre volte ci siamo regalati una giornata da incorniciare, una giornata protetta dai raggi del sole di Sperlonga, alto su di noi, e viva di quel vibrare nell’aria di corpi bollenti e respiri corti e assetati di acqua. I nostri corpi nell’acqua resistevano la forza del mare, bramosi di sfiorarsi prima di toccarsi, di stringersi, di avvinghiarsi. È stato in quel momento, dove al comando c’era l’istinto, che mi hai riportata per un attimo alla lucidità del pensiero. “Dove sei stata tutto questo tempo?”.

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Quella domanda. LA domanda. La domanda che ogni persona vorrebbe sentirsi dire. Perché è retorica e retoricamente sottintende il desiderio ardente di appartenersi, di abbracciare quelle due linee che scorrono indisturbate ma che sono destinate ad incontrarsi, riconoscersi, incrociarsi. A non lasciarsi mai. Quella domanda ha continuato a martellarmi nella testa Dio solo sa per quanto tempo. E forse non ha smesso ancora di farlo. Perché grazie a quella domanda ho davvero capito il valore della parola. La parola ha una forza inimmaginabile. Pronunciata e raggiunto l’orecchio ti trapana il cervello e non schioda più. Non importa quanto fiume di parole saprai vomitarci addosso per darle meno valore, sopraffarla, cancellarla. Non ci riuscirai mai. È sempre lì. Perché non è una semplice parola. È un sentimento, è una speranza, è una promessa. E le promesse, anche se infrante, restano sempre promesse. Che fanno male e che restano a tormentarci a volte per sempre.

Non dovevi dirmele quella parole. Non dovevi farmi quella promessa. La promessa di essere destinati l’uno all’altra. Perché il brutto delle parole è che non sono solo lettere messe in sequenza, diventano vere nel momento in cui le ascoltiamo. E le facciamo nostre. E diventano fede.

Io ho creduto a tutte le tue parole. E ci ho creduto davvero che eravamo destinati. Che un percorso condiviso così limpido, puro, cristallino come il nostro sarebbe rimasto per sempre reale, nostro, come le onde del mare che ci hanno coccolato quel giorno a Sperlonga.

Tolgo immediatamente la foto di Sperlonga. Evidentemente c’è ancora qualcosa dentro di me che tenta di risalire in superficie ma che per adesso voglio che mantenga un profilo basso. Meglio passare alla prossima. Mi soffermo su questa qui in particolare, perché è da quel momento che è precipitato tutto. È un selfie, l’ennesimo. Tu che sorridi a mezza bocca mentre tieni in mano un mazzo di carte. Me la ricordo quella sera. Dopo un mese e mezzo di “noi” ci siamo ritrovati per la prima volta da soli. Tu eri andato davvero in Spagna, mentre io ti scrivevo da Oslo, dove ero in vacanza. Non l’ho vista quella città. Non che non abbia girato. Ho girato eccome, in lungo e in largo, con gli occhi aperti. Eppure non vedevo nulla, se non il vuoto. Se non il tuo volto ritratto in quella foto che mi hai mandato il primo giorno di vacanza. Avevi qualcosa di diverso, di indecifrabile, ed è stata la prima volta in cui non riuscivo a decifrare cosa ti stesse passando per la testa. La prima volta che mi sono sentita non solo sola fisicamente ma anche nel cuore. C’era qualcosa di diverso, ti tenevi a distanza da me, da quello che eri diventato stando con me. Cercavi comunque di essere affettuoso, presente. Ma come fai a non sentire la differenza quando stai leggendo la Divina Commedia e un attimo dopo ti ritrovi tra le mani un paragrafo di Moccia? Da tre metri sopra il cielo a tre metri sotto terra nel giro di un selfie. Lorenzo, non sapevo cosa, ma qualcosa c’era. E non mi sbagliavo. È passata la vacanza, è passata una settimana, e poi un’altra ancora, e i nostri messaggi si sono ridotti a freddi telegrammi. Quasi quasi iniziavo a rimpiangere Moccia. Se non altro era narrativa, capace di farti provare qualcosa. Il racconto si è spento e non riuscivo a capire il perché. E sappiamo tutti quali sono i pensieri che ronzano in quel momento… Dove ho sbagliato? Cosa ho fatto? Perché sta diventando tutto così brutto? Così dozzinale. Era questa la cosa che mi dava più fastidio. La mediocrità di discorsi che non valevano un centesimo rispetto alle pepite d’oro che eravamo soliti creare.

Stacco dalla parete la foto più divertente che abbiamo. Anche se è quella che mi fa più male, forse.

Siamo io e te con gli occhiali 3D, appena usciti da una giostra. Abbiamo passato una giornata alle giostre, insieme. Solo a distanza di tempo riesco a cogliere l’ironia di quel luogo. Eh sì, la vita è davvero ironica. Davvero ironica. Io e te dentro una grande farsa. Un teatro a cielo aperto come può essere solo un parco divertimenti. Dove vivi l’adrenalina, ti sballi, godi e poi torni a casa svuotato. Esattamente quello che ho provato quel giorno. Abbiamo riso, ma la verità è che stavamo ridendo di noi. Così come abbiamo riso, con un ghigno a dare espressione al nostro volto e alle nostre parole, quando la cameriera dopo averci servito dei nachos giganti ci ha chiesto: “Ma voi due state insieme? Non si capisce”. Io l’ho odiata quella cameriera. Ma cazzo se quella è stata la battuta perfetta. Per la nostra farsa, il nostro show, il nostro unhappyending. Allora abbiamo abbassato lo sguardo e non abbiamo risposto. Ora potremmo.

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Manca l’ultima foto. Questa la stacco con vigore. Quasi la strappo. Stavolta sei solo tu, che sfuggi al mio telefono insieme a delle ochette bianche. Bianco sporco. Il nostro colore, a quanto pare.

Siamo nel laghetto del centro commerciale dove abbiamo visto “Lucy”. Il primo e ultimo film al cinema che abbiamo visto insieme. E anche l’ultima serata che ci è stata concessa. Ricordi di cosa parlava quel film, Lorenzo? Lucy è una ragazza normale che per un caso fortuito si ritrova ad avere dei superpoteri. L’ultimo che riesce a sviluppare è la capacità di viaggiare nel tempo e nello spazio.

E di nuovo, l’ironia. Che non mi abbandona mai e mi colpisce sempre nel mio punto debole. Perché io ci torno sempre indietro nel tempo e nello spazio. Torno indietro a quel picnic, torno indietro al nostro giro in Vespa per le strade illuminate di Roma, torno indietro a Bianca che lotta con le onde, torno indietro al sole di Sperlonga, e torno indietro alle emozioni delle tue parole, a quei viaggi mai fatti, a quelle proiezioni vivide dentro di me, a quelle sensazioni sussurrate, ispirate, vissute. A te che mi riempi di parole. Vivide, bellissime, importanti, profonde. E poi torno al presente. Al qui e ora. Sono qui e ora, Lorenzo. Ma tu non ci sei. E allora mi chiedo una cosa. Ed è l’ultima domanda che mi è rimasta. L’ultima che ti faccio, promesso. Come hai fatto a dimenticare la forza di una parola?

Eppure voglio dirti una cosa. Anche questa è l’ultima, promesso.

Me ne sto qui seduta sul letto con un mucchio di foto in mano, un mucchio di ricordi, un mucchio di saette nel mio corpo. È difficile staccare lo sguardo da loro. Perché sono belle foto, bei ricordi, e belle saette. Perché ancora le sento queste saette, eh. Ma poi arriva una telefonata della mia migliore amica da Londra, la stessa che per un po’ a tua insaputa è stata la tua migliore nemica, tanto mi facevi stare male. Alzo lo sguardo. E le parlo per l’ennesima volta di te, del viaggio nel tempo e nello spazio che ho appena fatto e mi sento stranamente viva. Perché anche quando ho freddo, quando intorno a me vedo solo ombra, basta parlare di te che vengo travolta da una luce inspiegabile. Una magia, un miracolo, un’epifania. Perché tutta la luce che mi dai la porto dentro. Ed è luce perpetua. Ed è questa la gratitudine di cui parlavo all’inizio. Non ci sono molte persone interessanti a questo mondo. Non ce ne sono. E ancora meno sono quelle che ti fanno sentire vivi. E se ci capita la fortuna di incontrarle anche per un breve momento nella nostra vita non possiamo passare il resto di questa unica vita che abbiamo a serbare rabbia, rancore e quell’eterna sensazione di incompiuto che ci può distruggere. Quindi grazie, Lorenzo, perché anche se ci sei stato per un breve momento mi hai lasciato un regalo ancora più grande. Una luce perpetua che porterò sempre con me.

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P.S. La nostra Lucy non sa viaggiare solo indietro nel tempo. E nel futuro ce lo siamo goduto fino alla fine quel giro in mongolfiera in Cappadocia. Cavolo se ce lo siamo goduto!

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